La domandina

Anche il carcere ha la sua interfaccia. A pensarci bene è davvero sorprendente che un’istituzione che ha meccanismi tanto farraginosi e vetusti poi funzioni come una cibermacchina. Stiamo parlando del “modulo 393” dell’amministrazione penitenziaria, senza il quale il carcere si bloccherebbe. Modulo 393? In realtà il suo vero nome è domandina.
Parliamo di uno stampato che viene consegnato ai detenuti per comunicare con l’amministrazione. Per intenderci, chi vuole chiedere o rappresentare qualcosa al direttore, al magistrato, oppure al dottore, o magari all’educatrice, all’assistente sociale, all’ispettore di reparto, o ancora vuole acquistare prodotti nella lista del sopravitto, o vuole telefonare, rivolgersi alla matricola, vedere un volontario, parlare con il prete, recuperare un oggetto al casellario, o ancora chiedere i moduli dei telegrammi per poi spedirli, fare la telefonata alla famiglia, non basta che scriva una lettera o compili i moduli appositi: spesa, telefonate, eccetera, eccetera (ne esiste un’infinta panoplia). Deve accompagnare tali richieste o comunicazioni con la domandina, il modulo chiave, il passe-partout con il quale, in sostanza, si chiede di poter chiedere.
La burocrazia si esprime con un linguaggio simbolico che dice cose molto chiare. In carcere poter chiedere non è un diritto ma una concessione, un premio, come la carota da rosicchiare. Fino al 2000 al posto dell’attuale “Il sottoscritto ……. richiede” si poteva leggere “Il sottoscritto ……. prega”, formula a cui la quasi totalità dei detenuti aggiungeva “la signoria vostra”. Solo i prigionieri politici e pochi altri si rifiutavano barrando quell’umiliante pretesa. Questa è la costituzione materiale della prigione, il suo codice genetico, poi, solo poi e molto dopo, viene la costituzione, l’ordinamento e il regolamento penitenziario stampati in bella copia. Basta che manchino le domandine e non si può chiedere più nulla. Capita l’antifona! E’ molto facile staccare la spina.
E sia chiaro, non basta chiedere una volta. L’atto deve essere ripetuto continuamente. Quale è il fine di tutto ciò?
Intanto suscitare una situazione d’indeterminatezza continua. Nulla è mai veramente acquisito, tutto resta sempre incerto. Ogni risposta dipende dal responsabile di turno, dal suo umore, dalle sue inclinazioni, dalla sua economia libidinale, dal livello di sadismo che lo soddisfa.
Il detenuto è così privato d’ogni autonomia e capacità di autodeterminazione. Scrive in proposito Salvatore Verde (Massima sicurezza, Odradek 2002): il processo di sorveglianza che la domandina innesca trasforma l’originario desiderio in una istanza ridotta alla dicotomia sì/no, cioè al linguaggio binario che infantilisce la comunicazione piegandola all’esercizio del principio di autorità. E’ da ciò che deriva il diminutivo DOMANDINA, così simile a frittatina, passeggiatina, gelatino, parole che suscitano in tanti di noi ancora un fremito bambinesco. «In fondo, io sono come una madre per voi», mi disse una volta una direttrice.
Senza offesa dottoressa, ma in tal caso preferisco restare orfano!

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8 pensieri su “La domandina

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  3. savinoas
    5 agosto 2012 alle 10:18 |

    Caro Paolo,
La domandina è anche un veicolo di potere, un modo per relazionarsi con il potere tipico del suddito e del sottomesso. 
Con essa si stabilisce la distanza dei mondi con le “Signorie Vostre illustrissime” in alto e il mondo dei paria, degli “intoccabili” e in basso i reprobi a schiena china, quelli che devono perennemente allungare la mano per chiede “elemosine” e piccole concessioni alle “Signorie Vostre” sempre “Illustrissime”.
    
E questa accettazione di ruoli è considerato indice, per il giudice di sorveglianza, di un buon percorso di “riabilitazione sociale” che il detenuto ha intrapreso.
 Il ripristino, nella mente del detenuto, dell’autoritas anzitutto e sopratutto. L’autorità, e le regole di accesso all’autorità, vengono prima del rispetto delle altrui persone (considerato assolutamente secondario e insignificante).
    Va segnalato anche che c’era (e c’è ancora perché rientrato per le carcerazioni NO TAV) chi, come Ferrari M., che non ha mai fatto una “domandina” in vita sua (neanche per la scarcerazione) … si è fatto milioni di anni (30 anni di carceri speciale – dove il tempo è dilatato) di detenzione per l’accusa di porto d’armi non autorizzato: una pistola 7,65, non militare!
    Ma per la maggior parte dei detenuti invece tutto questo è un gioco di ruoli, e lasciano volentieri alle “Signorie Vostre” il senso di protezione e sicurezza che questo gioco dà loro, tanto, dopo sarà un’altra storia.

    • Potrebbe , la “domandina”, essere anche a tutela del carcerato, qualora ne venisse consegnata al medesimo copia , atta a testimoniare le esigenze del medesimo ,nel caso di controlli da parte dei legali del detenuto , oppure del garante .
      Tralasciando le anacronistiche formulette con spirito di sottomissione con le quali “l’autorità carceraria” richiede l’approccio , rimane pur sempre una traccia ufficiale delle istanze del detenuto che, altrimenti sarebbero demandare ad impossibili verifiche sulla trasmissione orale delle medesime.

  4. Pensate solo nel 2000 è cambiata la formula che apriva ogni domandina: “Il sottoscritto…….PREGA…..”
    Il detenuto poteva rivolgersi all’Istituzione soltanto pregando, ossia elevandola a un tabù indiscutibile, ad un feticcio verso il quale si può soltanto aver fede… anche quando nega i più elementari Diritti dei detenuti e ne calpesta la dignità.
    L’Istituzione carceraria da sempre prova a piegare il linguaggio stesso dei detenuti, ovvero a piegarne la coscienza di cui il linguaggio è l’espressione immediata.

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