Su Prospero Gallinari

21 gennaio 2013 by

201301202019-800-201301191758-800-_COR9748Il fischio stanco di Oreste Scalzone davanti alla bara di Prospero Gallinari è stato il gesto perfetto. Non in favore di telecamere, non rivendicazioni di purezza ideologica né di contrizione colpevole, né pentito né superbo. Il gesto umano e politico di chi si trova di fronte a una bara a riassumere una storia che è stata umana ed è stata politica.

Fischiare l’Internazionale vuol dire che la storia di Prospero Gallinari, quella delle Brigate Rosse e della loro generazione, tutta intera, con le loro differenze, non è stata una storia impazzita, né la perdita dell’innocenza, né violenza insensata, ma una storia che sta tutta dentro la lotta che siamo soliti chiamare la lotta di classe. E chi si scandalizza per la presenza di giovani nel salutare Prospero Gallinari, nel rispetto che viene attribuito a lui e a quelli come lui che non hanno cercato la strada della dissociazione, umanamente comprensibile, né quella del pentitismo, o a seconda dei punti di vista della delazione, umanamente meno comprensibile, finge di non vedere quello che sta avvenendo da un po’ di anni: che in mancanza di un discorso culturale e politico su quegli anni, che coinvolga chi ha combattuto nello stato e chi ha combattuto contro lo stato, riconoscendo gli errori, le forzature e i delitti commessi da una parte e dall’altra, buona parte delle nuove generazioni se la è costruita da sola, la propria interpretazione, con chi era disponibile a parlarne, mettendosi a nudo anche in maniera spietata con se stessi, a volte.

Invece si è preferito costruire una verità ufficiale che è l’unica ammessa, quella dei buoni contro i cattivi, quella che siamo soliti vedere ripetere, su più piccola o grande scala, in ogni occasione, dalle manifestazioni di piazza alle guerre su scala internazionale, e se la si mette in discussione si rischia anche solo a parlarne.

Ci sono stati libri in questi ultimi anni (penso in particolare a quelli di Manolo Morlacchi, Salvatore Ricciardi e Barbara Balzerani, pur diversissimi tra loro) che hanno spiegato a chi non c’era quale è stato il percorso, singolo e collettivo, che ha portato alla scelta della lotta armata, cosa ha mosso un numero non piccolo di persone a rischiare in prima persona tutta la vita per il loro ideale, il comunismo. E in molti casi ci hanno raccontato perché, a un certo punto, si sono dichiarati sconfitti. Militarmente, certo, ma non solo. Perché seppur guidati da una logica in cui l’avanguardismo aveva un ruolo importante, non erano scollegati dalla realtà, una realtà che, a un certo punto, aveva ben poco a che fare con quella che avevano attorno quando avevano iniziato la lotta armata.

La dichiarazione dei militanti storici delle Brigate Rosse di sostanziale fine della loro esperienza risale al 1988. Venticinque anni fa. Venticinque anni in cui nessuna storia di presunte infiltrazioni ad alto livello nelle Brigate Rosse è mai stata dimostrata. Venticinque anni in cui pian piano è emersa un’altra interpretazione sulla loro storia, quella più rimossa, quella più temuta, ma in fondo anche la più ovvia: che la storia delle Brigate Rosse non è stato altro che parte della storia di un movimento rivoluzionario che ha attraversato l’Italia dall’inizio degli anni ’60 alla prima metà degli anni ’80, non l’unica, non la principale, ma parte di quella storia.

Una storia che è uscita sconfitta, a pezzi, umanamente e politicamente, non solo per l’accumulazione di ergastoli, secoli di galera, anche al di là delle responsabilità individuali, in buona parte scontati per intero, ma soprattutto per l’essere tacciati di essere nient’altro che vigliacchi, criminali, terroristi, schegge impazzite. La spirale della demonizzazione porta solo altri demoni perché non fa comprendere.

Io non lo so se la rivoluzione che sognava Prospero Gallinari assomiglia a quella che sogno io, probabilmente no, perché credo in una rivoluzione che si fa senza prendere il potere. O forse questa è una frase bella che ci raccontiamo per consolarci del fatto che nessuna rivoluzione è alle viste, oppure perché non abbiamo abbastanza coraggio per andare fino in fondo nelle nostre scelte. So però che la storia di Prospero Gallinari è collegata ad altro che c’era prima, a quello che gli era intorno e a quello che è venuto dopo. E in quella storia ci sono anche io, ci siamo anche noi, a cui non piace quello che ci circonda, quello stato di cose presenti e che ci arrabattiamo in tanti modi diversi a cambiarlo, a cambiarne un pezzo, e che pensiamo, come lo pensava Prospero Gallinari, che la rivoluzione è un fiore che non muore.